Una tassa per salvare il pianeta

Negli accordi di Parigi non ce n’è traccia. Ma nella lotta al cambiamento climatico, la carbon tax è una delle ultime armi ancora a nostra disposizione.

Tassare un male e non un bene, utilizzare un’imposta per salvare il pianeta. In Italia la Carbon tax è un’idea che circola da tempo, e che piace alla maggior  parte dei cittadini. Secondo un recente sondaggio pubblicato da SWG infatti, addirittura il 72% degli italiani è favorevole all’introduzione di una carbon tax internazionale. Non solo. In 3 su 4 si dichiarano anche disposti a boicottare le imprese che inquinano, e a spendere di più per comprare prodotti a basso impatto ambientale.

Un risultato per nulla scontato, specie per quel che riguarda la disponibilità a pagare di tasca propria per cercare di fermare un cataclisma innescato soprattutto da altri paesi. E’ chiaro dunque che il clima sta cambiando, in tutti i sensi. Se venti o trent’anni fa il surriscaldamento globale era un tema sostanzialmente elitario, quel che emerge da questo e altri sondaggi è una rinnovata voglia degli italiani di contribuire, , di partecipare, di riappropriarsi del compito di salvare il pianeta.

Un compito davvero arduo, nel quale i politici di tutto il mondo hanno cominciato a cimentarsi seriamente soltanto nel recentissimo passato, con colpevole ritardo. E se è vero che gli accordi di Parigi rappresentano un primo passo storico nella lotta mondiale al cambiamento climatico, è altrettanto vero che le misure concepite nella capitale francese non sono assolutamente sufficienti. Una serie di scadenze, di termini entro i quali diminuire le emissioni di CO2 in questa o in quest’altra percentuale, slegati però da qualsiasi vincolo sostanziale che provveda a farli rispettare. Si sono fissati degli obiettivi, senza però prevedere chiaramente come raggiungerli in termini pratici, e soprattutto economicamente competitivi. E in un’economia globalizzata di mercato, basata proprio sulla concorrenza e sulla competitività, questo è un errore davvero madornale.

E’ chiaro infatti che il cambiamento climatico non può essere fermato senza una sforzo coordinato a livello internazionale. Il caso della carbon tax, illustra molto bene i motivi di questa affermazione. Su questa tassa vige infatti una sorta di economia di scala: per funzionare a pieno regime e neutralizzare i propri iniziali difetti (aumento dei costi di produzione e conseguente perdita di competitività), necessita di essere imposta su base quantomeno continentale. In caso contrario, per le imprese la delocalizzazione in paesi vicini rimarrebbe sempre la scelta più conveniente.

Introdurre una carbon tax soltanto in Italia, come proposto dalla sezione nazionale del WWF lo scorso 3 novembre, rischierebbe dunque di far migrare le imprese in Albania o in Croazia, condannandoci ad una stagnazione economica ancor più pesante di quella attuale.

Ma non è detto che questo rischio non possa essere scongiurato. Una possibile strada per aggirare l’ostacolo viene indicata in un articolo di Cristina Brandimarte, Primo Ricercatore presso il Servizio Studi Econometrici e Previsioni dell’ISTAT. Secondo l’esperta di fiscalità ambientale e green economy, fino ad oggi la carbon tax è stata adottata nella forma di semplice accisa sulle vendite di combustibili fossili, andando a gravare soprattutto sui costi di produzione. Gli effetti negativi in termini di competitività ne avrebbero così scoraggiato l’applicazione, soprattutto nei paesi ad alto consumo  di questo tipo di combustibili. Secondo Brandimarte la chiave per disinnescare questo trend negativo consiste nell’invertire questa logica, spostando la tassazione dal circuito produttivo al consumo. Un modello simile a quello dell’IVA, l’imposta sul valore aggiunto, che andrebbe a pesare molto meno sui costi di produzione, e permetterebbe al tempo stesso di tassare le importazioni, ma non le esportazioni.

Un vantaggio, quest’ultimo, che farebbe molto comodo ad economie come quella del nostro paese, che ha sempre sofferto di un grosso handicap: la dipendenza energetica dall’estero. Un modello simile indurrebbe le imprese italiane a cercare strade alternative all’importazione, incentivando gli investimenti nelle rinnovabili, che a loro volta contribuirebbero alla crescita.

In tutto questo lo Stato dovrebbe avere un ruolo fondamentale: il mercato non cura da solo i problemi che crea, come sostenevano gli artefici dell’economia neoclassica. E le imprese, giusto o sbagliato che sia, mirano soltanto al proprio tornaconto, esattamente come ogni essere umano. L’imposizione e la giusta applicazione della carbon tax spettano dunque ai politici, e non agli economisti.

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D’altronde  tassare le emissioni di CO2 senza incidere sulla crescita è possibile.  Quando nel 2008 la carbon tax fu introdotta in British Columbia, nel Canada occidentale, in molti avevano pronosticato disastri per l’economia della regione. Cinque anni dopo però, i dati dimostrarono che la tassa sulla CO2 era riuscita nell’obiettivo di far ridurre emissioni e il consumo di combustibili fossili del 16%, senza impedire alla regione di avere performance economiche uguali o addirittura leggermente superiori al resto del Paese.

Questo e altri casi dimostrano chiaramente che, se fatta bene, la carbon tax non fa male all’economia. Bisogna soltanto saperla applicare.

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